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In questa edizione tragica per la morte della diciottenne svizzera Muriel Furrer, c’è chi si presenta al via non per vincere, ma per portarsi sulle spalle un paese intero. Sono ventisette i corridori-paese, faranno da soli, non hanno tattiche da studiare, non devono mettersi d’accordo, non c’è discussione su chi farà la punta e chi la spalla. Magari hanno problemi più grandi, che in corsa noi non vedremo

Cory Williams è nato a Los Angeles 31 anni fa. «Ci ho messo un anno intero per non essere doppiato quando ho iniziato a gareggiare», racconta. Cory sarà la nazionale del Belize al Mondiale di Zurigo. Ha imparato a correre guardando le corse in tv, con suo padre Calman, ex dilettante del paese centroamericano, e i suoi fratelli Justin e CJ. La bici era soprattutto una via di fuga. «Nel nostro quartiere era facile finire nel posto sbagliato, morti o in prigione, ricordo i buchi dei proiettili sui segnali stradali, non so cosa avrei fatto senza una bici». Con Justin ha fondato in California un team Continental: si chiama L39ION, si dice legion. I legionari hanno un obiettivo chiaro: vincere rendendo il ciclismo inclusivo, cambiare colore a uno sport che è ancora troppo bianco. Nella crono iridata, domenica scorsa, Cory ha chiuso 49esimo, a quasi 11 minuti da Evenepoel.

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In questo Mondiale tragico – la svizzera Muriel Furrer è morta a 18 anni dopo essere rimasta chissà quanto a lungo ai bordi di un bosco senza che nessuno sapesse che era caduta, niente radio, niente localizzatore GPS, il futuro nel ciclismo è soltanto un modo di riempirsi la bocca – ci interroghiamo su Pogačar o Evenepoel o chi altri potrà mai vestire la maglia arcobaleno e rischiamo di trascurare la domenica di chi al campionato del mondo non va per vincere, ma per portarsi sulle spalle un paese intero. Sono in tanti a fare nazionale da soli, nel ciclismo globale in mostra a Zurigo sono 27 i corridori-paese. Non hanno tattiche da studiare, non devono mettersi d’accordo, non c’è discussione su chi farà il capitano e chi il gregario. Magari hanno problemi più grandi, che in corsa noi non vedremo.

Kyrylo Tsarenko compirà 24 anni tra pochi giorni. Viene da Kropyvnyc’kyj, in mezzo all’Ucraina. Tre anni fa è venuto in Italia per correre in bicicletta, e non è più tornato a casa dai suoi genitori e dai suoi fratelli di 12 e 15 anni: ha paura che non lo lascino più uscire. In cambio sogna: è diventato professionista quest’anno, con la Corratec-Vini Fantini. Aveva già corso un Mondiale in pista, a Roubaix, questo doveva essere il primo su strada. Era l’unico ucraino, ma all’ultimo ha deciso di non correre: sente di non avere la condizione fisica adeguata per onorare come si deve la maglia della nazionale in un Mondiale. In compenso ci sarà un russo, Alexandr Vlasov, che corre (da solo) come atleta neutrale. Tra gli isolati è una star: a 28 anni ha vinto il Giro d’Italia Under-23 nel 2018, il Giro dell’Emilia nel 2020 e il Romandia nel 2022. Dell’attacco all’Ucraina ha parlato allora, poi più. «Io, come molti russi, voglio solo la pace. Alle persone normali come me non è stato chiesto se vogliamo una guerra. Il ruolo dello sport dovrebbe essere quello di unire le persone oltre i confini politici, piuttosto che dividerle».

Israele, Cina e Africa

Nadav Raisberg è nato 23 anni fa negli Stati Uniti da famiglia ebrea. Aveva un mese quando approdò in Israele, è cresciuto nel kibbutz Sde Nehemia, al confine col Libano, lo stesso di Raz Degan. Un paradiso, che oggi è un inferno. Nadav è professionista con la Israel-Premier Tech, che quest’anno è stata costretta a togliere le scritte da ammiraglie e pullman al Giro e al Tour per evitare contestazioni o peggio. Ha corso Strade Bianche e Parigi-Roubaix prima di debuttare al Giro d’Italia: è caduto nel finale della tappa di Lucca, è risalito in bici e ha tagliato il traguardo con una frattura scomposta della mano destra. Al Mondiale porterà la bandiera del paese che oggi fa paura al resto del mondo.

Lyu Xianjing l’ha fregato il covid. Alla fine del 2019 sembrava pronto a diventare the next big thing del ciclismo cinese, ai Mondiali dello Yorkshire qualcuno lo definì «la sensazione cinese» e lui rispose alle domande che no, non conosceva il Tour de France, e no, non sapeva chi fosse Geraint Thomas. Erano passati 15 anni da quando gli olandesi della Marco Polo avevano cominciato a cercare talenti in Cina. Poi la pandemia restrinse il mondo di Lyu Xianjing, e ritardò di almeno quattro anni la sua esplosione. Nato su una mountain bike, forte in salita ma non altrettanto bravo in discesa, Lyu Xianjing a 26 anni è stato il primo cinese della storia a qualificarsi per la corsa su strada ai Giochi di Parigi: ha chiuso 68esimo, a 20 minuti da Evenepoel. Ora correrà il Mondiale: capitano, gregario, tutto insieme, un Marco Polo al contrario, alla scoperta dell’Occidente. Finora il ciclismo cinese non ha attratto sponsor importanti: aspettano che ci sia un talento conclamato, quello che è stato Yao Ming per il basket. Non è detto che non sia Lyu Xianjing.

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La Guinea-Bissau, uno degli stati più piccoli dell’Africa (due volte il Lazio, per 2 milioni di abitanti), ex colonia portoghese, è sull’orlo di una crisi feroce: contrasti ormai insanabili tra il presidente della repubblica, Umaro Sissoco Embaló, che non sa dare risposte ai continui sbarchi di droga nel paese, e il capo del parlamento, Domingos Simões Pereira. A Zurigo non ci saranno dualismi: la Guinea-Bissau è Apolinário Cá, 32 anni. Quando ha vinto la Quinhamel-Bissau, su una distanza di circa 40 chilometri, ha detto tutto contento: «Non è stata una sorpresa per me, considerando che mi ero allenato prima di questa gara».

L’Africa può essere anche bianca. Come quella di Alexandre Mayer, 26 anni, che andando in fuga ha vinto i Giochi africani di Accra lo scorso marzo portando un risultato insperato per il suo paese, Mauritius. Alex, nipote della leggenda del ciclismo mauriziano Colin, ha lasciato l’isola per andare a correre in un team di sviluppo della Cornovaglia, il Saint Piran, e intanto prosegue gli studi universitari perché non pensa di poter vivere di bicicletta.

Mongolia, Malta e Vaticano

Jambaljamts Sainbayar è nato 28 anni fa a Ulan Bator e quest’anno ha firmato un contratto con la spagnola Burgos BH diventando il primo ciclista professionista mongolo della storia. È il suo quinto Mondiale, il suo obiettivo è tagliare per la prima volta il traguardo. Alle Olimpiadi di Parigi ha chiuso 57esimo, a 9 minuti da Evenepoel.

A proposito di prime volte, ai Mondiali di Zurigo è arrivata una wild-card per Malta (che non ha punti nella classifica mondiale per nazioni ma diverse sponsorizzazioni in corso, che evidentemente pesano di più) e la prima maglia della nazionale la vestirà Andréa Mifsud. Fino a pochi giorni fa per l’UCI era francese, corre con modesti risultati (il migliore un 12esimo posto nella quarta tappa dell’Etoile des Bessèges) nella Continental Nice Métropole Côte d’Azur, ma per un Mondiale si può anche cambiare bandiera. «Il mio bisnonno è maltese – ha raccontato a DirectVelo – ho sempre desiderato la doppia nazionalità. Per me sarà un grande orgoglio correre con la maglia di Malta. Solo parlarne mi emoziona. Da piccolo e da ragazzino andavo sempre lì in vacanza, è il paese delle mie origini. Si parla di Malta solo per il turismo, ma è un paese molto sportivo. Chiaramente, gli abitanti sono pochi ed è quindi difficile che emergano grandi talenti». Non vivendo nell’isola, Mifsud evidentemente non sa che di Malta si parla anche per altre ragioni, per esempio perché ogni anno scende nella classifica per la libertà di stampa e nel 2023 il Parlamento dell’Unione Europea l’ha condannata perché non rispetta i diritti e l’indipendenza dei giornalisti.

Ma al Mondiale i paesi in cui i diritti sono in pericolo sono più numerosi di quelli che hanno un solo corridore al via. Rifugiamoci nella fede. La squadra del Vaticano, voluta da Papa Francesco nel 2019, sarà rappresentata da Rien Schuurhuis, 42 anni, nato in Olanda, sposato con una dipendente dell’ambasciata australiana in Vaticano. Schuurhuis è al terzo Mondiale, dopo Wollongong e Glasgow. Non è mai arrivato al traguardo, ma quello non conta. «Il mio obiettivo è sempre stato andare in fuga, farmi notare perché in tv si parli del nostro messaggio: fratellanza e inclusività». Più che controcorrente: proprio rivoluzionario.

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