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Nell’auditorium dell’Ara Pacis, Maurizio Bettini, in collaborazione con Aglaia McClintock, presenta tre incontri tutti al femminile, con eroine le cui vicende – a Roma – furono narrate da Catullo, Ovidio e Seneca: Arianna sulla riva del mare, Medea alle Isole dei Beati, Fedra nella reggia dell’incesto. Gli incontri, organizzati dal Festival della Comunicazione nell’ambito dell’Estate Romana, si tengono venerdì 4, sabato 5 e domenica 6 ottobre alle ore 21, sono gratuiti e a ingresso libero fino a esaurimento posti, con prenotazione consigliata.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’avvelenatrice, l’assassina dei propri figli, avrebbe concluso la sua vicenda umana in un luogo meraviglioso, accolta là dove l’inverno è sconosciuto e Zefiro spira gioia e serenità: alle Isole dei Beati. Protetta dal Sole, suo antenato, appena scesa a terra dal carro che il dio ha messo a sua disposizione per fuggire da Atene, dove stava per perpetrare un altro dei suoi delitti, Medea narra le proprie vicissitudini, dal tradimento subìto alla sua inumana vendetta.
Di quanto era avvenuto a Corinto, dove Medea e Giásone si erano stabiliti dopo la fuga dalla reggia di Pelia, Medea non ricorda tutto. Troppo tragici, troppo violenti furono gli eventi che vi si erano svolti. Tutto era cominciato con un colloquio molto spiccio, mentre lei e Giásone erano ancora a letto. Lui aveva parlato dei figli, di come a Corinto fossero poco sicuri, destinati a una vita di umiliazioni, perché erano nati da un greco e da una donna barbara, principessa sì, ma di Colchide. Secondo la legge dei Corinzi il loro matrimonio non era legittimo, il diritto che vigeva in quella città ammetteva solo unioni fra Greci, fra cittadini. E Medea era una barbara, non avrebbe mai potuto diventare cittadina di Corinto. I loro figli sarebbero rimasti per sempre due bastardi.
L’unico modo per garantire loro un futuro migliore era che entrassero a far parte di una nuova famiglia, e lui l’aveva trovata. Sarebbero diventati addirittura i figli di un re; con lui, divenuto sovrano di Corinto, avrebbero vissuto a corte come principi, e lei sarebbe potuta restare come sua concubina. All’inizio Medea non aveva neppure capito che cosa le stesse dicendo Giásone, fin quando non era arrivata questa parola: “concubina”. Quello che avrebbe potuto essere lei se avesse voluto restare a Corinto, con Giásone e la sua nuova sposa.Dicono che solo allora Medea avesse finalmente compreso che cosa intendeva fare Giásone. Lasciare lei, la sua sposa legittima, per sposare Glauce, la figlia di Creonte, il re di Corinto. Con sé, cioè con lui e la sua nuova sposa, Giásone avrebbe preso anche i bambini mentre lei, Medea, se avesse voluto, avrebbe potuto restare a Corinto come sua concubina. A questo punto Giásone si era alzato dal letto. Medea aveva pianto, o almeno così le pareva di ricordare, ma lui non se n’era neppure accorto, era troppo impegnato a radersi e a spalmarsi il corpo di un unguento profumato che lei stessa gli aveva regalato. Mentre lui continuava a massaggiarsi il petto e le braccia, lei, di colpo, sentì che Giásone era ancora dentro di lei, certo, come c’era sempre stato, però adesso era anche fuori.
E’ questo che accadde nel petto di Medea. Quell’ombra che la dominava si era come materializzata davanti a lei e però era diventata altro, un’altra persona, completamente diversa. Invisa. Odiosa. Detestabile. Glauce, la figlia del re di Corinto, era giovane quanto lo era Medea al momento in cui Giásone era entrato nella reggia di suo padre Eeta, il re della Colchide. Medea l’aveva conosciuta a corte, dopo qualche tempo erano divenute amiche, come una donna più grande, sposata, che ha cura di due figli, può essere l’amica di una ragazzina. Medea aveva insegnato a Glauce come si preparano i profumi, e intanto le raccontava dell’isola dei Feaci, delle Rupi Vaganti, del canto di Orfeo. Glauce l’ascoltava con gli occhi ammaliati, come si ascolta un cantore che narra le cose che sono state, che sono e che saranno. Medea non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno quella ragazzina dagli occhi ammaliati le avrebbe portato via il marito. Invece era proprio questo che stava per accadere, Giásone aveva parlato, Glauce sarebbe diventata sua moglie, e tutto ciò che Medea poteva sperare era di rimanere a Corinto come concubina. I suoi figli sarebbero divenuti i figli della nuova coppia regale, lei li avrebbe persi per sempre. Era troppo, troppo inatteso, troppo ingiusto.
E intanto Giásone continuava a ungersi le membra di olio profumato, come se niente fosse. Lui non aveva capito niente. Forse, se Medea non avesse visto Glauce mentre si recava al tempio di Afrodite per offrire alla dea la sua bambola, e abbandonare così per sempre lo stato di vergine, come voleva il rituale, Medea si sarebbe limitata a fuggire da Corinto portando con sé i suoi figli, maledicendo Giásone e la sua nuova sposa. Invece, quando la vide passare stringendo al petto una figurina d’avorio che sembrava lei stessa, Glauce, il suo doppio virginale, quando vide che al passaggio di lei e della sua bambola tutti spargevano lacrime di tenerezza, Medea ebbe chiaro in mente che cosa doveva fare. Così confezionò lei stessa la veste di matrimonio più bella che a Corinto si fosse mai vista, degna di una principessa, e il giorno prima delle nozze fra Glauce e Giásone l’offrì alla sposa, per far intendere che aveva accettato le nozze. La ragazza la indossò, curiosa e felice, stupida come la sua bambola. Ma dicono che subito le fiamme l’avvolsero in una vampa che nessuno riuscì ad estinguere. Glauce urlava dal dolore e dalla disperazione, suo padre Creonte accorse e afferrò un lembo di quella veste avvelenata per strapparla di dosso alla figlia, ma il filtro con cui Medea aveva intriso la stoffa era potente, contagioso, prontamente si estese al mantello del re e in un attimo anche lui fu avvolto dal fuoco.
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