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Addio all’obiettivo 1,5 °C: la colpa è di politiche lente e poco ambiziose #adessonews

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Il sesto rapporto di valutazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicato ad aprile 2022 mostrava che esisteva ancora una finestra, di tempo e possibilità, per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C rispetto all’era preindustriale. Tale conclusione era il frutto dell’esplorazione di migliaia di possibili scenari futuri: circa un centinaio di questi restituivano un mondo non più caldo di un grado e mezzo.

Un nuovo studio pubblicato su Nature Climate Change ad agosto di quest’anno riconsidera questi scenari ottimistici alla luce della loro reale fattibilità e giunge alla conclusione che quella finestra ora è definitivamente chiusa: il grado e mezzo oggi è un obiettivo fuori portata. Il massimo a cui possiamo aspirare è una probabilità inferiore al 50% di limitare il riscaldamento a 1,6 °C.

Per proiettare le temperature dei decenni a venire, gli scienziati dell’IPCC utilizzano dei modelli che simulano nel tempo le complesse interazioni tra economie, società e ambiente: il loro acronimo è IAMs e sta per Integrated Assessment Models (modelli di valutazione integrati).

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I modelli producono futuri scenari emissivi, e di conseguenza di riscaldamento, sulla base di diverse combinazioni di mix energetici, tecnologici, uso del suolo e trend socio-economici. Nell’ultimo rapporto dell’IPCC (AR6 WG3), 97 scenari rientravano nel limite di 1,5°C o di un suo superamento limitato nel tempo: si parla in questi casi di periodo di overshoot. Tali esiti ottimistici rientrano nella categoria C1, mentre quelli più pessimistici, dove le emissioni crescono a dismisura e la temperatura supera i 4 °C a fine secolo, sono categorizzati come C8.

Gli scenari C1 sono però ottimistici non solo nei risultati ma anche nelle assunzioni. Infatti, non considerano adeguatamente una lista di fattori di fattibilità contenuti nel rapporto speciale dell’IPCC del 2018, dedicato al grado e mezzo. Il nuovo studio pubblicato su Nature Climate Change condotto da Christoph Bertram dell’università del Maryland e del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK), ha esplorato più in dettaglio il ruolo di questi fattori, che sono di natura tecnologica, socio-economica, culturale, e istituzionale.

Dalle analisi del lavoro emergono due conclusioni importanti. La prima è che oggi il fattore tecnologico non è più un limite alla realizzazione degli obiettivi dell’accordo di Parigi, anzi: sono proprio le soluzioni energetiche a basse emissioni di cui già disponiamo il principale strumento che consente di arrivare, nella migliore delle ipotesi, a 1,6 °C a fine secolo.

“Grazie agli ultimi sviluppi delle tecnologie a basse emissioni, come il solare, l’eolico o i veicoli elettrici, la fattibilità tecnologica della neutralità climatica non è più il fattore cruciale“ ha dichiarato Gunnar Luderer del PIK, tra gli autori dello studio. “Lo è molto di più quanto velocemente le politiche climatiche vengono incrementate dai governi”: è proprio questa la seconda e più importante conclusione che emerge dalla ricerca.

Per quantificare il successo delle politiche climatiche lo studio prende in considerazione il prezzo delle emissioni di anidride carbonica. Si tratta di una misura di mitigazione interamente politica, che viene applicata solo se il governo è forte a sufficienza sul fronte ambientale.

Considerando oltre alla carbon tax anche la velocità e l’efficienza con cui diversi Stati hanno ottenuto in passato riduzioni di emissioni di gas a effetto serra e altri inquinanti, i ricercatori hanno costruito un indicatore di governance per tutte le macroregioni del globo (Nord America, Cina, Europa, America Latina, India, Medio Oriente, Africa, ecc.) e lo hanno proiettato da qui a fine secolo.

Negli scenari più pessimistici, il prezzo del carbonio (carbon price) non cresce e resta sempre uguale ai livelli del 2020: ciò sarebbe misura dell’incapacità dei governi di implementare politiche climatiche. In questo caso, negli scenari di categoria C1, rimanere al di sotto dei 2 °C avrebbe una probabilità compresa tra il 30% e il 50%.

I migliori scenari dell’IPCC prevedevano una probabilità del 50% di rimanere al di sotto di 1,6°C. Aggiungendo i limiti di governance più ottimistici considerati dallo studio su Nature Climate Change (e non considerati dall’IPCC), questa probabilità si abbassa a un valore compreso tra il 5% e il 45%. Sarebbero in particolare i Paesi con strutture amministrative più fragili quelli che incontrano maggiori difficoltà a implementare politiche climatiche ambiziose.

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Un’altra ragione per cui il grado e mezzo oggi risulterebbe fuori portata è che gli scenari C1 dell’IPCC, partendo dalle emissioni del 2019, prevedevano che queste sarebbero iniziate a calare già dal 2020. I dati degli scorsi anni ci hanno detto invece che, seppur di poco, sono continuate a salire.

Quegli scenari inoltre prevedevano un periodo di sforamento del grado e mezzo di qualche decina d’anni intorno alla metà del secolo, ma contavano sulla capacità (a dire il vero molto ottimistica anch’essa) di rimuovere gas serra dall’atmosfera nella seconda metà del secolo, per tornare al di sotto di 1,5 °C.

Nel 2023, secondo i dati di Copernicus, le temperature globali si sono fermate a un passo dal grado e mezzo, a 1,48 °C, ma da luglio 2023 a giugno 2024, per 12 mesi consecutivi, la temperatura del pianeta però è stata stabilmente al di sopra di quella soglia. Abbiamo già esperito dunque un periodo di overshoot di almeno un anno e presto questa potrebbe essere la nostra nuova normalità climatica.

Anche lo studio appena pubblicato ribadisce che per riportare le temperature al di sotto di 1,5 °C dopo lo sforamento sarà necessario rimuovere dall’atmosfera centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 per ogni decimo di grado che si vorrà abbassare. “Seppur non sarà sufficiente per evitare l’overshoot, ridurre la domanda energetica e aumentare l’elettrificazione aiuterà molto a ridurre le temperature, poiché una ridotta domanda energetica lascia più energia disponibile ai sistemi di rimozione di anidride carbonica”, che ad oggi non si sono ancora dimostrati utili su larga scala proprio per i costi energetici ed economici.

“Il nostro studio non implica che l’obiettivo di 1,5 °C debba essere abbandonato” si legge nel paper. Il faro della decarbonizzazione quindi resta l’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi, che indica di limitare il riscaldamento globale ai 2 °C, possibilmente a 1,5 °C.

Tra scenari ottimistici e pessimistici, oggi quello dato per più probabile, in base all’estensione delle politiche correnti, prevede un riscaldamento globale di circa 2,7 °C a fine secolo. Un sondaggio pubblicato dal Guardian riportava dei 380 autori IPCC intervistati, quasi il 35% (132) è ormai convinto che a fine secolo avremo un aumento di 2,5 °C, più del 26% (100) si aspetta almeno 3 °C.

Sebbene quindi un’applicazione rapida di politiche ambiziose sia ad oggi il punto più critico della mitigazione climatica, ogni sforzo in questa direzione è essenziale per evitare esiti molto più catastrofici di quelli che comunque ci attendono, come un mondo più caldo di oltre 4 °C rispetto all’era pre-industriale.

Maggiore è lo sforamento del grado e mezzo, maggiori sono le probabilità di vedere la foresta amazzonica trasformata in savana, i ghiacci artici sciogliersi, le correnti marine stravolte, gli eventi meteorologici estremi diventare ancora più devastanti di quelli che abbiamo osservato quest’anno. I costi della crisi climatica sarebbero incompatibili con il benessere della popolazione mondiale. Ogni decimo di grado conta.





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