Ora, le cronache del post-voto possono apparire più che stucchevoli: lunari. Stanche speculazioni di routine, sulle irrisorie gesta di quell’esercito di soldatini che si svegliano a pochi mesi dalle elezioni e all’improvviso fingono di esistere, di contare davvero, di candidarsi ad amministrare qualcosa che non sia fatto solo di piccole clientele e modeste poltrone. La grande diserzione elettorale fu salutata come una provvidenziale palingenesi, due anni fa, dal popolo degli arrabbiati, gli italiani sottoposti alla sferza del micidiale tandem Conte-Draghi. Qualcuno arrivò a vaticinare svolte antropologiche, baciate dal sol dell’avvenire: semplicemente snobbando le urne, l’Uomo Nuovo si sarebbe liberato della tirannide.
Beate speranze, insomma: tutto troppo facile. Senza vedere che a svuotare la democrazia sono gli stessi poteri che la vararono, o la adattarono ai propri scopi: e oggi si godono lo spettacolo dello sfacelo politico, il trionfo di una disaffezione lungamente inseguita. Persino le regionali liguri lo ribadiscono plasticamente: la maggioranza dei cittadini ha capito che gli attuali politici non valgono nulla, si limitano a obbedire a poteri superiori. Da parte loro non c’è nessuna autonomia: non compiono scelte, si adeguano alle determinazioni altrui. E sono imposizioni contraddistinte dallo stesso segno: estendere il dominio, disastrare il welfare e vessare i sudditi, allontanare il cittadino da qualsiasi centro decisionale.
Negli ultimi vent’anni, sulla comunità planetaria s’è abbattuto uno tsunami dopo l’altro. È cambiato tutto, tranne la recita obsoleta delle elezioni con il suo linguaggio paleozoico. Il gran falò ha bruciato demagoghi di talento, mestieranti della fede, apprendisti stregoni. Berlusconi e Bossi, il finto masaniello Di Pietro, il ciarliero Renzi. Dopo di loro Grillo, il sommo illusionista della scuderia Casaleggio-Sassoon sbarcato dal Britannia per poi indossare i panni del pifferaio magico. Tra le macerie della disillusione ha provato a farsi largo l’effimero Salvini, poi surclassato dall’altrettanto impalpabile Meloni. E ogni volta, delusione dopo delusione, la marea dei renitenti è fatalmente cresciuta.
Mentre cadono missili e dilagano i ricatti, i ministri si riuniscono per litigare sull’unica materia di loro competenza: il taglio ulteriore della spesa pubblica, imposto dalle entità sovrastanti che nessuno osa contraddire. La scena è penosa, almeno quanto gli inchini di fronte ai Padroni della Terra: vere e proprie divinità, rispetto a cui i politici nazionali (figurarsi gli elettori) non hanno voce in capitolo. Lo schema è esattamente quello collaudato dai sistemi teologici dogmatici, fondati sull’obbedienza: ma guai a dirlo. E in ogni caso, nessuno sembra accorgersene. Fede e speranza sono i sentimenti (religiosi) con cui molti guardano a Putin e Trump come provvidenziali salvatori, dopo aver vanamente sperato in Berlusconi, Bossi, Grillo, Salvini, Meloni.
Le avanguardie sembrano destinate a essere regolarmente inascoltate. A Ziegler, in Italia fece eco il sociologo Luciano Gallino, quando parlò di “lotta di classe alla rovescia” denunciando lo smantellamento brutale dei diritti sociali. E se qualcuno immagina che sia imminente una svolta democratica, una ribellione pacifica e dunque efficace, probabilmente si sbaglia. Nel 2020, di fronte allo sconcertante regime introdotto da Conte (lockdown e coprifuoco) la maggioranza rispose aderendo alla slogan “Io resto a casa”. Sono “rimasti a casa”, comprensibilmente, anche gli elettori della Liguria. Ma non hanno un piano-B: nessuno in cui credere, nessun programma alternativo. Nessun linguaggio adeguato. Nient’altro che il fango da spalare dalle strade, dopo l’ennesima alluvione.
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