Proteste Masai in Tanzania. I popoli indigeni pastorali di Kenya e Tanzania hanno pascolato il loro bestiame in modo sostenibile per generazioni. Ma oggi, denuncia Survival International, si vedono sottratte le loro per progetti di conservazione e programmi di compensazione delle emissioni di carbonio che violano i loro diritti umani. Crediti foto: Masai community e Survival International (www.survival.it)
Riceviamo e pubblichiamo l’opinione di Fiore Longo, ricercatrice e responsabile della campagna di Survival International per decolonizzare la conservazione, a commento dei lavori della Cop16 di Cali (Colombia) dedicata alla biodiversità, che si concluderà il 1 novembre.
A circa 31 anni dall’entrata in vigore della Convenzione sulla Diversità Biologica, questa settimana nella città colombiana di Cali è iniziata la Conferenza delle Parti (COP) – ovvero l’incontro che periodicamente riunisce governi, ONG e altri soggetti con un interesse in questa Convenzione.
L’opinione di Fiore Longo, ricercatrice e responsabile della campagna di Survival International per decolonizzare la conservazione. Fondato nel 1969 a Londra, Survival International è un movimento mondiale per la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni. Secondo Longo, la Cop16 riproduce «un modello coloniale verticistico, dall’alto verso il basso, guidato da governi e agenzie internazionali e radicato nel razzismo»
Questa COP (la sedicesima dal 1993) è particolarmente importante perché dovrebbe risolvere alcune questioni vitali rimaste incompiute riguardanti il nuovo “piano d’azione” globale per la biodiversità, noto come Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (o Quadro Globale per la Biodiversità) e approvato durante la COP15 del 2022.
I difetti del Quadro Globale per la Biodiversità
Non fatevi ingannare dal titolo neutro: quello che verrà deciso potrebbe influenzare drammaticamente milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto le comunità indigene e locali, perché il Quadro Globale per la Biodiversità ha una serie di gravissimi difetti.
Quella che avrebbe potuto – e dovuto – essere un’iniziativa di trasformazione, infatti, sta invece replicando il solito e vecchio approccio alla “protezione della biodiversità”: un modello coloniale verticistico, dall’alto verso il basso, guidato da governi e agenzie internazionali e radicato nel razzismo; un modello che è ormai stato completamente screditato ma, nonostante tutto, persiste.
Rispettare il consenso
Sintomatica del modo in cui il nuovo piano d’azione è stato cooptato fin dall’inizio è la decisione di finanziarne l’attuazione non attraverso la creazione di un fondo globale innovativo, come chiedevano molte nazioni del Sud del mondo, ma piuttosto con l’istituzione di un nuovo fondo nell’ambito del Fondo Mondiale per l’Ambiente (Gef, Global Environment Facility), una collaborazione di lunga data tra Banca Mondiale, varie agenzie Onu e governi.
La scelta del Fondo Globale per l’Ambiente è molto problematica perché l’organizzazione non pone come requisito il rispetto del diritto dei popoli indigeni al Consenso libero, previo e informato su qualsiasi progetto esso finanzi e che possa influenzare le loro vite, le loro terre e i loro diritti.
Inoltre, il nuovo fondo – noto come Global Biodiversity Framework Fund (Gbff) – è in un certo senso una emanazione del Gef, e ne ha quindi adottato le regole con il risultato che accetterà proposte di finanziamento di nuovi progetti sulla biodiversità solo se provenienti da una delle agenzie designate dal Gef stesso: un gruppo di 18 istituzioni come banche internazionali di sviluppo o grandi multinazionali per la conservazione come il Wwf o Conservation International, che hanno una lunga storia di complicità nella violazioni di diritti umani.
Vignetta di Frédéric Hache, Direttore del Green Finance Observatory
L’analisi dei progetti
Survival ha analizzato la documentazione di tutti i 22 progetti che sono stati finora approvati
e ciò che è emerso suggerisce che i peggiori timori dei critici del Gbff erano ampiamente giustificati:
• solo uno dei 22 progetti finora approvati andrà probabilmente a beneficiare i popoli indigeni ed è chiaramente diretto a loro.
• le commissioni totali che saranno pagate alle agenzie proponenti (un costo che si aggiungerà ai costi effettivi delle attività dei progetti), ammontano da sole al 24 per cento di tutti i fondi disponibili. E la quota dei fondi di progetto che rimarrà all’interno di queste agenzie sarà probabilmente ancora più alta.
• tra tutti i proponenti, la sezione statunitense del Wwf è stata quella che ha avuto più successo nell’acquisire fondi. I suoi cinque progetti o concept approvati (sovvenzioni per le fasi progettuali incluse) ammontano a 36 milioni di dollari, quasi esattamente un terzo del fondo totale. Undp e Conservation International (che hanno presentato rispettivamente nove e due progetti) rappresentano ognuno circa un quarto dei fondi totali. Insieme alla Fao, queste agenzie riceveranno l’85 per cento dei primi 110 milioni di dollari stanziati.
• uno dei progetti finanzierà (attraverso il Wwf) Aree Protette in Africa ben note per la loro lunga storia di sfratti dei popoli indigeni dalle loro terre e di violenze contro di essi da parte dei guardaparco.
Una grossa fetta dei finanziamenti è destinata all’obiettivo “30×30”, che prevede di aumentare l’estensione delle aree protette al 30 per cento delle terre e dei mari del pianeta entro il 2030. Secondo Survival International, questo aspetto è particolarmente preoccupante perché parchi nazionali, riserve naturali e altre aree di conservazione costituiscono già una delle minacce più gravi per i popoli indigeni.
Tali parchi hanno quasi sempre comportato sfratti brutali, violenze e distruzione dei mezzi di sussistenza degli indigeni. Questi problemi continuano ancora oggi, basti pensare al terribile sfratto di migliaia di Masai dall’Area di Conservazione di Ngorongoro avvenuto recentemente in Tanzania.
Survival ritiene che la struttura e il funzionamento di questo intero modello di finanziamento siano fondamentalmente viziati. Invece di promuovere un nuovo – ed estremamente necessario – approccio per la protezione della biodiversità basato sui diritti, è fortemente sbilanciato in favore di progetti di conservazione “business as usual” e dall’alto verso il basso. E per gli indigeni è quasi del tutto inaccessibile.
Un meccanismo di finanziamento da rivedere
Riteniamo che l’intero meccanismo di finanziamento debba essere rivisto: il Gbff dovrebbe adottare una direzione completamente nuova, in cui i finanziamenti siano diretti principalmente ai popoli indigeni e alle comunità locali. Il finanziamento di progetti di “conservazione fortezza”, nuovi o ampliati, dovrebbe essere vietato.
Inoltre, non va dimenticato che le cifre straordinariamente grandi (come 700 miliardi di dollari all’anno) che è stato detto sarebbero necessarie per proteggere la biodiversità, sono state proposte dalle multinazionali della conservazione della natura con un interesse personale nella creazione di tali obiettivi. Per proteggere la biodiversità sarebbero necessari molti meno finanziamenti se l’accento fosse posto su un più ampio riconoscimento delle terre e dei diritti dei popoli indigeni piuttosto che sul costoso approccio colonialista, verticistico e militarizzato, che rimane il pilastro economico dell’industria della conservazione.
Il lato oscuro dei crediti di biodiversità
Come se tutto ciò non fosse già abbastanza preoccupante, la COP16 vedrà anche il lancio di una serie di iniziative volte a creare crediti di biodiversità.
Il concetto di crediti di biodiversità è simile a quello utilizzato nei mercati del carbonio, dove aziende o organizzazioni si suppone possano “compensare” (offset) l’inquinamento da loro prodotto (e causa di cambiamenti climatici) acquistando crediti di carbonio generati da progetti che, in altre parti del mondo, si presume prevengano le emissioni di carbonio o rimuovano attivamente il carbonio dall’atmosfera. In realtà, sia l’idea che la pratica sono profondamente viziate: simili progetti mettono un prezzo sulla natura, trattando le terre di indigeni e comunità locali come una riserva di carbonio da scambiare sul mercato, in modo che gli inquinatori possano continuare a inquinare mentre l’industria della conservazione guadagna miliardi di dollari. Popoli indigeni e comunità locali, invece, finiscono per essere sfrattati e privati dei loro mezzi di sussistenza.
I crediti di biodiversità, proprio come i crediti di carbonio, fanno parte di una nuova spinta verso la mercificazione della natura. Una recente dichiarazione sottoscritta da oltre 250 organizzazioni ambientaliste, comunitarie, per i diritti umani e per lo sviluppo di tutto il mondo (tra cui Survival International) ha chiesto l’immediata sospensione dello sviluppo di schemi di biocredito.
Oltre ai problemi tecnici, morali, filosofici e pratici legati all’attribuzione di un prezzo alla conservazione di specie o di interi ecosistemi e al loro scambio con la distruzione altrove, l’idea minaccia anche gravemente i popoli indigeni, che finirebbero per subire una pressione crescente da parte di accaparratori di terra o di accordi ingiusti volti a sostenere progetti di bio-compensazione che cercano di trarre profitto dalla spesso ricca biodiversità dei luoghi che gli indigeni abitano e gestiscono da generazioni.
Problemi simili si sono già verificati molte volte con gli schemi di compensazione del carbonio, e molti leader indigeni denunciano che la mercificazione della natura implicita nei crediti e nel commercio di biodiversità è contraria alla loro visione del mondo e ai loro valori.
Poche speranze
Quindi, c’è qualche speranza per questa COP? Onestamente, non molte: le stesse istituzioni che per decenni si sono arricchite a spese dei popoli indigeni – custodi di gran parte della biodiversità mondiale – si sono accaparrate quasi subito l’intero processo di protezione della biodiversità.
Come minimo, deve essere rispettato il diritto dei popoli indigeni di dare – o negare – il loro Consenso libero, previo e informato a qualsiasi progetto che li riguardi. Le organizzazioni indigene – insieme ad alleati come Survival International – faranno tutto il possibile per garantire che ciò avvenga.
La soluzione per proteggere la biodiversità mondiale è davvero molto semplice: rispettare i diritti territoriali dei popoli indigeni e affrontare le cause che stanno alla base della distruzione della biodiversità, come lo sfruttamento delle risorse mondiali per profitto. Sarebbe confortante se la priorità dell’agenda della COP fosse questa…
*Fiore Longo è ricercatrice e responsabile della campagna di Survival International per decolonizzare la conservazione
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